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Canzoni Vol. 1 - Ancora in città

by Giulio Righele

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1.
Un'ingiuria 06:08
2.
3.
Rimini 06:23
4.
Qui 06:47
5.
La casa 04:55
6.
7.

about

Giulio Righele: composizioni; testi; arrangiamenti; voce; tecniche alla chitarra acustica Manne CSM - fondo e fasce in mogano; batteria e percussioni; Fender Rhodes; armonica.

Davide Gonsalves: bassi elettrici; arrangiamenti.
Marco Buzzaccaro: Hammond su "Un'ingiuria".

Registrato, missato e masterizzato tra giugno e settembre 2015 da Giulio Righele e Marco Buzzaccaro presso Buzz Recording Studios, Schio (Vi).

credits

released September 23, 2015

Fotografia di copertina di Alessandro Zaffonato. Impaginazione grafica di Michele Bruttomesso.

Testi, musiche e produzione di Giulio Righele.




“Nouveaux restes artisans d’Italie”
Nuove rimanenze artigiane italiane
Canzoniere Vol. 1

Note sparse

[…]
Cosa resta alla fine di tutta una serie infinita di esperienze? La riproducibilità dei ritmi di scrittura nel forbito scrivere romanzi, e non solo, che vogliono parlare del vivere.
A me questo sembrava il massimo dell’irrealismo quando l’ho avvertito attorno a me, i libri e le narrazioni tutte uguali.

[…]
Dai tempi in cui ho iniziato a scrivere, che per me è sempre stata una cosa che va di pari passo con lo spirito - quando leggi un libro entri in un certo stato e quasi puoi dimenticarti del libro, nel suo respiro e anche di più -, ho constatato sempre cose che al solito poco niente ci hanno a che fare.
Attorno a me vedevo sempre gente vincere premi, o aspirare a grandi traguardi, con il solo espediente di riprodurre un ritmo narrativo taldietali, quell'afflato, senza dire mai niente. Poi la questione si è fatta ancor più tremenda, quando anche il pubblico ha iniziato a leggere solo in una certa maniera, dando inizio a quella danza dei mediocri riuniti indistintamente nel chiacchiericcio sciatto.
Contemporaneamente, trovavo aspetti invece sempre più insistentemente veri nelle radici del mio paesaggio, studiando i linguaggi artistici e le forme semiologiche, cioè quelli derivanti da un atteggiamento del parlato, in particolare in Veneto, dove sopravvive ancora una lingua unitaria tra basso e alto, quasi a sé, di carattere millenario, che ha poi veicolato sotterraneamente (per la praticità dello spirito dei veneziani) l’atteggiamento di formulazione dei linguaggi visivi, più che tradursi in una lingua ufficiale, cioè l’esatto contrario di quanto accaduto a livello nazionale col fiorentino letterario. Notavo qui che il ritmo, inteso come quest’ossatura distintiva visibile e non, era una questione che stava tra diverse discipline, e veniva fuori come aspetto sommerso, ancora una volta, nella formulazione dei linguaggi visivi storici, in maniera del tutto unica e vitale e ancora da ristudiare, molto lontana e addirittura invisibile rispetto agli stili già codificati.

[…]
Quando ho iniziato a registrare le composizioni che avevo tra testo e musica, mi sono reso conto di quanto quest’aspetto fosse venuto a galla anche per me, presentando, ancora una volta, una concezione del ritmo compositivo, del segno della parola, tutto diverso da quello ricercato come riproducibilità del giorno d’oggi, ormai anche a livello inconscio del tutto banalizzato e sterile ancor prima di iniziare a dire qualcosa.
La ricerca di una nuova strada negli equilibri del ritmo della frase, del verso, del gesto narrativo, ha condotto a quel punto tutto il senso del procedimento, anche quando alla scrittura si era sostituita un’altra scrittura, quella musicale, sempre con le sue regole precise e inossidabili, ma pur sempre con questo percorso, un naturale voler sottrarsi alla spietatezza di tutte le nuove forme di annullamento della parola sotto il nome del globalismo, dove tutto ciò che risulta non codificabile risulta automaticamente annullato, e dove i sistemi di relazioni, da sempre generatori di forme e contenuti, sono ridotti a sterili assembramenti umani e di pensieri senza più alcuna linfa.

[…]
Il risultato è stato naturalmente anche avventuroso e pioneristico, ma penso che ci manchi anche un po’ questo in tutto quello che facciamo, compreso un ritorno ad un vero artigianato, e non a un nuovo e sempre più assottigliato analfabetismo di maniera. Abbiamo più paura di essere giudicati e di dover assolutamente formalizzare qualcosa per questo, invece che il contrario in generale oggi.

[…]
Certamente il percuotere, il suono prodotto da percussione ha avuto molto da dire nel dettare questi nuovi spazi. Il testo poi è sempre stato originato e cesellato a contatto con la musica e viceversa, ricavato sempre da una serie di appunti sparsi presi stando fuori da tutte le narrazioni possibili durante varie fasi ed esperienze di vita nell’arco di oltre trent’anni, e tentando poi di rimettere insieme un quadro di frammenti che parlasse anche del passare del tempo dentro e fuori il nostro contingente, come generazione e non.
Il ritmo era quindi in definitiva un ritmo che avevo trovato nel sangue, più libero e infatti aderente a un’architettura libera quale il dialetto, un’aderenza complessa e mai ufficiale, un ritmo d’appartenenza che non sapevo di avere, che non è codificabile come proprio del territorio poetico, o come musicale, con nessuna di queste metriche, ma che segue solo questo suo andamento di segno, forse inverandosi a contatto tra più discipline, proprio per specifiche sue caratteristiche, come radice profonda legata allo specifico paesaggio italiano da cui si proviene, in parte.

[…]
Qui viene il punto anche tragicomico su come pubblicare il risultato di tutto ciò, che è quasi una narrazione a parte ma esaustiva.
Il risultato di questa parte di percorso appunto è divenuto un disco, nel 2015, salvo la dicitura più aperta come Canzoni Volume ecc., che indicava qualcosa a metà tra un canzoniere e un’opera di ambito jazzistico, come effettivamente la musica stessa veniva a connotarsi per gli strumenti e le tecniche utilizzate, peraltro del tutto investigate anch’esse e nuove.
Quello che si è verificato dopo è del tutto indicativo del mondo in cui viviamo.
Alle resistenze si sono sommate sparse critiche, e in generale ho percepito che in molti avevano accolto il lavoro ma nessuno era in grado di parlarne.
Così, semplicemente ho riassistito allo stesso spettacolo di sempre, con tutti i treni dell’ovvio che ti passano davanti nonostante tutto quello che hai fatto, pressoché sempre da tuo conto, pagando ogni dovuto, ma quasi sempre perché le persone non sanno più parlare liberamente. Non diciamo neanche una parola poi su quanto si sia smaterializzata la materia musicale, e su quanto i dati di superficie abbiano smembrato, accorciato in tempistica e portato subito a immagine tutto, non salvando nessuno, letteralmente, anzi mettendo tutti in contatto con questa modalità come fosse normale conversazione col quotidiano, con l’ovvio. Tutto ciò è palese ed evidente in questo momento, che se ne dica.
Il disco è poi rimasto on-line solo per chi voleva “leggere”, in alta definizione - formato flac, inattingibile in altra fonte se non su nuove piattaforme digitali, e quindi totalmente distante come fruizione rispetto a un semplice lavoro musicale per la stessa materia del suono - e circolando come autoproduzione, cioè senza nessuna etichetta, come lavoro di cambiamento e di ricerca appunto, ma anche di semplice, semplicissima fruizione sul piano dell’ascolto. A volte tutto ciò mi ha dato l’impressione di un universo nel deserto, essendo annullate tutte le distinzioni, annullato ogni pensiero, ogni dibattito, ogni percorso di senso.

[…]
Il Volume 1 aveva in sé un tono da medio romanzo per così dire, da romanzo o racconto urbano dove tutto rimane crudo, o meglio dove tutto ritrova il senso di una sottrazione e di una nuova ricerca musicale attraverso le liriche, con carattere denso e parlante (sì, pastoso in questo senso veneto probabilmente) al contrario di quanto accade ultimamente. Mi piaceva poi l’idea di rispecchiare fedelmente una certa ambientazione cittadina, connotata precisamente, ma anche fantasticante e sui generis, attraverso la descrittività dei suoni, dove al carattere boschivo, magnetico e insondabile si sommano dense spigolosità urbane appunto, e stratificati modi di appartenenza ancora vitali, anche nell’editing di piccole angolature di voce o altro, dove tutto ora mi appare d’un segno materico a ragione specifico.
A questo Volume rimane intatto il senso d’una appartenenza a un certo percorso: il territorio della canzone, della canzonetta sospesa per aria, apparentemente inconsistente, e proprio per questo libera, come il territorio del documentario, dove trovare un terreno franco da facile smercio, dove il pensiero insegua ancora il lavoro libero dell’uomo, dove ci siano ancora gratuità, spontaneità, aria, ricerca e curiosità, artigianalità appunto, pulizia, spiritualità e anche gioia soprattutto e bellezza.
Naturalmente appena sono partito, questo territorio è stato subito devastato come c’era da aspettarsi. Paroloni come composizione o altro ad un certo punto avevano già iniziato ad apparire con una faciloneria e una frequenza al limite del ridicolo, completamente calpestati, nel reame ormai assoluto dell’intangibile e dell’irreale, dove tutto è possibile, come un inferno di prevaricazioni.

[...]
Il segno che si era venuto a coagulare tra la costruzione musicale del testo e la materia musicale era divenuto come tangente all’immagine in movimento poi a volte, notavo, simile a quegli equilibri, come la creazione dello spazio cinematografico per verti versi, quindi ancor più trasversale sorprendentemente.
L’ardimento di registrare prima le chitarre in studio, ha rivelato un segno più ispessito poi nella materia musicale, sottile e robusto, che conduceva bene l’andamento “pittorico” o figurativo del lavoro in generale. Ad esso andavano ad unirsi la voce e un altrettanto sottile e forte pronuncia ritmica di fondo, contro una tridimensionalità restante riempita da tutta una massa armonica ben precisa.

[…]
La voce poteva essere affidata a qualcun altro, ma ho scelto di restare anche al cantato per dare il senso di qualcosa non destinato a decollare, ma calato nella concretezza della realtà e dei suoi limiti quotidiani, quasi come in quei decentrati versi italiani del secondo Novecento.
Anche qui, gli equilibri non erano definibili secondo convenzione, poiché la pasta del tessuto in generale aveva bisogno di segni più stemprati che la bilanciassero, segni non interpretativi, ma lasciati liberi, da misurarsi col resto.

[…]
La chitarra, impiegata quasi come una macchina fotografica (Manne CSM fondo e fasce in mogano), non ha visto overdubs o altri artifici, salvo per le tracce sovraincise per lo sviluppo delle altre linee per così dire “a partitura”.
Si tratta di tecniche sviluppate esclusivamente con mano destra e mano sinistra senza l’occorrenza del plettro e ininterrotte da inizio registrazione fino alla fine, variando tra accordi, melodie, armonie, ritmiche, armonici, tapping, hammer, slap, e con quella speciale coloratura e spazialità costituita dagli stessi armonici ad allargare gli intervalli, verso le decime, undicesime, dodicesime, tredicesime ecc.
Il risultato ottenuto è un nuovo capitolo a sé che andrebbe analizzato a parte, per carattere e descrittività. Posso solo dire di essermi volutamente avvicinato nel corso degli anni di studio a un disegno più vario e rotondo possibile, dove la lezione a farla da padrona è ancora una volta prima di tutto l’ascolto e lo studio “a voce alta”, l’assimilazione e il mandare “a mente” intervalli e quant’altro per il perfezionamento anche sullo strumento, come un esercizio costante alla lettura, più e prima dello scrivere, che è secondo me il punto di comprensione dell’intera materia e di svolta per tutte le storie musicali e non solamente.

[…]
Il senso di racchiudere questi lavori insieme alla fine non vuole tendere ad alcuna presunzione di risposta già inscatolata, e ho preferito difatti, una volta riuniti, rilasciare i frammenti senza un finale ospedalizzato da romanzi, ma ancora aperti, come volumi tematici ma non soltanto, come fotografati e basta, senza un ordine laconico, ma chiusi con sufficiente materia a cui pensare.

[…]
Le persone con cui ho avuto la fortuna di collaborare: musicisti e operatori giganteschi e invisibili, persone vere che mi sembrano parte di un quotidiano sempre più indifferente a tutto, al contenuto musicale nel suo specifico, preoccupata com’è oggi la gente di capire se chi fa musica ha una visibilità o no, prima d’iniziare a conoscersi e ad instaurare un qualsivoglia genere di rapporto umano e professionale.

[…]
I ragazzi che, infine, assieme al sottoscritto, sono stati coinvolti nella problematica di portare a esposizione dell’uditorio sempre più sterile all’infuori il primo lavoro, senza tanta captatio benevolentiae, anzi nessuna, penso abbiano colto il senso del lavoro, e rimango a loro legato da un senso di amicizia, anche qui, incomprensibile per l’efficientismo di questo mondo. Rileggo ogni tanto quanto scrisse per me in poche righe […], che mi sembra ancora una cosa molto bella, semplicissima e subito evanescente, riguardo al primo Volume, tutto all’opposto di centinaia di battute mistificatorie marchiate a fuoco, come un timbro di un ineludibile, rinnovato, già consolidatissimo e gigantesco apparato burocratico dostojevskiano e pietroburghese, recensioni fatte scrivere su misura, regalate e gratuite solo e soltanto per continuare nel processo di creare pubblicità, senza più una misura autorevole di confronto, cosa ordinaria oggi (nessuno ha mai alzato un dito in proposito).

[…]
Il territorio mediatico della musica come quanto si è visto per l’arte contemporanea (per certi versi): un reame dove tutto si autoalimenta basandosi sullo smercio delle opere - permanendo solo rarissimi, e ho detto rarissimi casi, da indagare col lanternino -, dove l’aria è annullata, il pensiero annullato, ogni narrazione annullata, e dove tutto diventa un'allusione verso qualcosa, sempre con il fantasma della descrittività del realismo o dello stilismo che morde alle calcagna, come un virus che si diffonde senza scampo, e che va a braccetto con il facile terreno del marketing moderno della diversità. In questo senso vorrei quasi affermare di aver smesso di considerarmi un occidentale da un pezzo, una concezione dove tutti sono portati a vivere col fiato sul collo a tutti, dove tutto deve essere identificabile più che vitale e dove la coercizione è d’obbligo per sopravvivere.

[…]
Alla fine di questo avverato presagio, un territorio rimane e rimarrà: quello dove la maggior problematica stia nella riattivazione di senso, la revitalizzazione di aree date per scontato o inaridite, e anche di quelle in cui si crede di sapere, dove le proprie concezioni possano trovare un terreno di ritorno all’interesse, alla curiosità, al colloquio vero.

[…]
Se mi fosse chiesto, mi piacerebbe radunare ciò che ho scritto in futuro sotto questa dicitura più o meno chiara: “Nouveaux restes artisans d'Italie. Nuove rimanenze artigiane italiane”, comprendendo ogni forma di scrittura e registrazione di ritmo che rimane come forma di resistenza alla vuota esistenza televisiva già scritta per tutti: dal canzoniere appunto, come punta di un iceberg di tutto questo discorso a seguire (anche come forma compiuta, da stilema fatto e individuabile, e ancor più invisibile quindi da afferrare, ma forse sarà sempre così), passando per il racconto; i primi romanzi sperimentali e non (quelli successivi dove ho tentato un aggancio con la “scuola emiliana”, l’unica vera “scuola” per me, e quindi tra quegli equilibri di distensione piana e cristallina della narrazione ricavata dalle pianure e il carattere invece più sincretico del modo di agire che veniva dal mio retroterra); le poesie con i ritmi arcaici bellunesi; il racconto in riminese, fino agli appunti di viaggio sul paesaggio, e ad altri lavori ancora da fare. Territori cioè dove il segno, specie quello del NARRARE in generale, che siano suoni, parole, aspetti visivi o quant’altro, emerga con questo senso compositivo tra le discipline, indagato per lungo tempo e specificamente in ogni singolo ambito, e come forma di contatto esterna ancora possibile con gli altri, tutto al contrario di quello che accade oggi.



Giugno 2016
G.R.

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about

Giulio Righele Schio, Italy

Giulio Righele, born in 1984, surveyor and designer, is graduated in Literature at Alma Mater Studiorum, University of Bologna. He also studied Digital Communication in Rome, at Il Sole 24 Ore, and during the university he perfected his musical skills.
In 2016 he was selected for the first project powered by Fondazione Villa Fabris in Vicenza, Centro Europeo Per I Mestieri del Patrimonio.
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